di Luigi Mariano Guzzo
“Maledetto sia colui per il quale la verità va detta senza pensare alla carità fraterna”, scrive Enzo Bianchi in un tweet di una settimana addietro. Poi, giovedì compare una nota (non firmata) sul sito della Comunità monastica di Bose, da lui fondata nel 1965, in cui si parla di un provvedimento canonico (un decreto singolare firmato dal cardinale Segretario di Stato e approvato, in forma specifica, da Papa Francesco) che obbliga Bianchi e altri tre confratelli a “separarsi dalla” comunità. Il motivo sarebbe da rintracciare in una “situazione tesa e problematica” per quanto riguarda “l’esercizio dell’autorità del Fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”. Ed ecco che si fanno più chiare quelle parole di Bianchi sul rapporto tra dire la verità e praticare la carità fraterna. Perché, in questo caso, ad affermare la verità (o meglio, a ritenere di affermarla) è la Comunità monastica che dà pubblica notizia del provvedimento canonico, senza essere né l’autorità che l’ha emanato né diretta interessata né chi garantisce l’esecuzione (c’è, infatti, un delegato pontificio, con pieni poteri). Di certo, anche se alcuni degli interessati non intendono dare seguito a quanto dispone l’atto – come leggiamo nella nota -, ciò non legittima la Comunità monastica ad offrire questa vicenda in pasto alla gogna mediatica, senza peraltro tutelare il diritto alla riservatezza (si pensava forse che la pressione mediatica avrebbe portato ad una più rapida esecuzione dell’atto? O è – e sarebbe più grave – una sorta di punizione?). Ma, lasciando da parte la questione giuridica, “detta” la verità – ci chiediamo – dove sta la carità fraterna?
Non sappiamo come andrà a finire. Però sarebbe un errore pensare che la vicenda si ferma a Bose e al necessario processo di rinnovamento e di riconciliazione che da qui in avanti deve intraprendere questa comunità di monaci e di monache. La posta in gioco è molto più alta: riguarda il presente (e il futuro) della Chiesa e il rapporto con il potere. Il Vangelo ridisegna i rapporti di potere in termini di servizio, ribaltando la logica del “mondo”. Nella comunità dei discepoli di Gesù non c’è spazio per la gestione di un potere che è sopraffazione, neanche quando si voglia (solo) affermare la verità. Se così fosse saremmo molto vicini ad associare la logica del ministero ecclesiale ad una sorta di “dispotismo illuminato”. Al contrario, l’autorità è da esercitarsi come un cammino verso la ricerca della verità il cui passo è segnato dalla carità fraterna. Per questo, ha ragione Enzo Bianchi a chiedere, inoltre, le prove delle accuse, per potersi così difendere, nonostante si tratti di un decreto con approvazione pontificia, avverso cui, quindi, non può farsi ricorso (è aperto comunque lo spiraglio di una “supplica” che il Papa può sempre accogliere). Anche il vescovo Luigi Bettazzi, padre conciliare, sottolinea la necessità che a Bianchi sia offerta la possibilità di difendersi. Ma questo non perché non si voglia accettare la croce e non sia abbia fiducia nella Chiesa che è madre – ha detto padre Bartolomeo Sorge. Da un lato, ne va della credibilità di una persona riconosciuta come instancabile testimone di ecumenismo, di dialogo, di fraternità; dall’altro ritorna insistente la domanda su quale Chiesa vogliamo edificare. Accettiamo una Chiesa dove un fedele può essere “condannato” sulla base di un provvedimento amministrativo, “senza accusa e senza appello”, come ha scritto lo storico Alberto Melloni, al di fuori di quei principi del “giusto processo”, che fondano la nostra civiltà giuridica, e che riconduciamo nell’eredità del pensiero giusnaturalistico, in quanto li consideriamo iscritti in una legge di natura che regge le azioni umane? E’ davvero questa la comunità di donne ed uomini, basata sull’amore, portatrice di un messaggio di pace, di libertà e di eguaglianza tra le sorelle e i fratelli, che vuole il Rabbì di Nazareth? Con ogni probabilità, no. Ma riuscirà la vicenda di Bose ad innescare un processo di rinnovamento per l’intera istituzione ecclesiale? Lo auspichiamo.
Il Quotidiano del Sud, 30 maggio 2020
