di Luigi Mariano Guzzo
Oggi non è Pasqua. O meglio, non lo è ancora. Quel saluto, il primo saluto che il Risorto rivolge ai discepoli, «Pace a voi!», è lontano dal trovare una realizzazione alle nostre latitudini. E, di questi tempi, con la guerra nel cuore dell’Europa, sono parole che rimbombano prepotentemente nelle coscienze. Ci inchiodano davanti alle responsabilità, alle nostre responsabilità, di donne e uomini che, pur nascendo, vivendo e operando in contesti di pace, si sono riscoperti incapaci di rinunciare del tutto all’insensatezza della violenza armata.
Nella sua Autobiografia (1997), Norberto Bobbio, che aveva postulato l’“Età dei diritti” (1990), si domandava in che termini poter parlare dei diritti umani e della loro effettività dinnanzi a “mucchi di cadaveri abbandonati, intere popolazioni cacciate dalle loro case, lacere e affamate, bambini macilenti con le occhiaie fuori dalla testa che non hanno mai sorriso, e non riescono a sorridere prima della morte precoce”. La stessa domanda si impone in questi giorni: come parlare di Pasqua, di Resurrezione, di vita che vince sulla morte, di fronte alla disgrazia della guerra, alla tragedia di un «cessate il fuoco» che non arriva, al dramma di negoziati che non trovano una soluzione?
No, che non può essere Pasqua oggi. Perché il saluto del Risorto non ammette sconti o riserve, tranne a che non si guardi alla pace come ipotesi metastorica. Ma così non è: la pace è condizione pienamente storica, non fosse altro che è l’unica condizione possibile realisticamente (quest’avverbio è da sottolineare!) affinché la storia, la storia dell’umanità, abbia un futuro.
Con lo spettro di una guerra nucleare incombente ciò dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro. Eppure, si continua ad alimentare il conflitto, ad ammettere la legittimità – e non soltanto come ipotesi teorica – della guerra, a fabbricare armi e munizioni, ad aumentare i capitoli di bilancio degli Stati per le spese militari.
Allora, non è Pasqua in Ucraina. Non lo è in tutte quelle aree del mondo dilaniate dalla distruzione perpetrata da uomini che uccidono altri uomini, dove il suono delle campane a festa è ottenebrato dal frastuono della morte: il rumore maledetto di mitragliatrici, delle bombe, dei carri armati. E non è Pasqua neanche da noi, nelle strade e nelle città che abitiamo ordinariamente. Magari, sentiamo pure, in maniera nitida, il suono delle campane a festa. Ma come possiamo riconoscerci destinatari di un messaggio di pace – di quel «Pace a voi!» – e, al contempo, essere complici, in maniera più o meno consapevole, di morte e di devastazione?
Non è Pasqua, insomma. Non lo sarà finché non saremo pronti a rinunciare, in maniera netta e chiara, alla logica della guerra, che porta a distinguere tra buoni e cattivi, tra violenze legittime e violenze illegittime, tra amici e nemici, tra vittime e carnefici. La pace chiede, al contrario, un ripensamento delle nostre categorie etiche, giuridiche e istituzionali. Esige di essere in grado di trasformare le nostre parole e azioni: da parole e azioni di guerra in parole e azioni di non-violenza. È irrealistico tutto ciò? Assolutamente, no. Di irrealistica c’è solo l’idea di continuare ad alimentare la guerra. Le parole di Gandhi rimangono attuali (di un’attualità che, mai come in questi casi, non può che essere definita disarmante): “unicamente mezzi giusti possono produrre risultati giusti e […], almeno nella maggioranza dei casi, se non in tutti, la forza dell’amore e della pietà è infinitamente superiore alla forza delle armi”. Sarà Pasqua solo quando nel mondo sulla forza delle armi trionferà la forza dell’amore. E sarà vera Pasqua. Ma oggi ancora non è Pasqua.
