di Luigi Mariano Guzzo
“Non c’è un corso per diventare santo, essere santo non è fare il fachiro o qualcosa di questo stile… No! Non è! La santità è un dono di Gesù alla sua Chiesa e per far vedere questo Lui sceglie persone in cui si vede chiaro il suo lavoro per santificare”. Mi sono ritornate in mente queste parole di Papa Francesco non appena ho avuto notizia della scomparsa di Fortunato Francesco Chirumbolo, 33 anni, già vice presidente del settore Giovani dell’Azione Cattolica (AC) di Lamezia Terme. Perché, personalmente, nelle occasioni in cui ho avuto modo di incontrare Fortunato, in quegli occhi che erano stati in grado di trasformare il dolore in speranza, riuscivo anch’io a scorgere il “lavoro” di un Dio che fa “nuove tutte le cose” (Ap 21, 5), che santifica. Parlo di “santità” e capisco di utilizzare termini e concetti che per la Chiesa e per la sua storia hanno un forte significato, il cui riconoscimento sta a valle di un delicato processo canonico. Eppure, non riesco a scrivere di Fortunato senza parlare di santità. E sia chiaro: di santità, nel senso pieno del termine. Di quella santità che non è di questo mondo, che è propria del Regno dei Cieli, perché è innanzitutto dono di tempo, di energie, di risorse, di sentimenti all’altro, a chi ci sta accanto; è impegno nella costruzione del bene comune e nell’edificazione di una società migliore, di giustizia e di pace. Insomma: non posso scrivere di Fortunato senza pensare a lui come ad un santo, uno di quelli della porta accanto, un santo dell’ordinario, la cui vita si è combinata, in un modo o nell’altro, con le nostre vite.
Se ogni parola ha un peso, io questa la scandisco chiaramente: santità. E lo faccio con convinzione. Soprattutto dopo che leggo su Facebook il messaggio della moglie Giovanna. E’ un inno all’amore (ricordate l’inno all’amore di San Paolo?): “l’amore ci ha resi invincibili. Un amore che l’ha tenuto in vita, che l’ha fatto reagire in un reparto di rianimazione. Amate i vostri mariti, le vostre mogli, i vostri amici con un amore smisurato: l’amore che porta a Cristo. Fortunato mi ha portata con sé e ha lasciato parte di lui in me, perché in Cristo tutto è possibile”. Ed ecco che si realizza la promessa eterna di un amore più forte della morte… Sempre sul popolare social network numerosi i messaggi lo ricordano come una persona “speciale”, che portava “gioia e speranza nel cuore”, che dimostrava sempre “grande positività e fiducia nella vita”, che riusciva a “tirare fuori da chiunque, davvero da chiunque, il meglio”, che era “buono, vero, forte”, “sempre gioioso”, “dolce”, con la “volontà di non fermarsi mai”.
Per la delegazione regionale dell’AC Fortunato ha vissuto in “maniera radicale” il Vangelo di cui è stato “instancabile annunciatore”. E Giuseppe Ferrise, già incaricato per la Calabria dell’associazione, ci conferma che la “presenza di Dio” si è rivelata una “costante” nella vita di Fortunato, il quale ha sperimentato “cosa significhi vivere in pienezza la sua esistenza, senza sprecare nemmeno un secondo di quanto gli è stato concesso”. Una “testimonianza di cristiano credibile” che – ci dice ancora Ferrise – “si fida e soprattutto si affida a Dio, e non può che essere da sprone per noi tutti a volare alto nei luoghi che siamo chiamati ad abitare”.
Questa polifonia di voci e di ricordi conferma che dinnanzi alla vita di Fortunato percepiamo il profumo della santità. Probabilmente, alcuni potrebbero reagire al pari di Natanaèle che, a proposito di Gesù, si domanda sorpreso: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 46). E così anche noi potremmo avere la tentazione di esclamare: “dalla Calabria può mai venire qualcosa di buono?”. Ma la risposta è sempre là, nel Vangelo: “vieni e vedi”. Già, venite e vedete, andiamo e vediamo, che anche nella nostra terra, una terra di periferia, martoriata dalle mafie e dalla corruzione, con evidenti ferite di marginalità sociale, sbocciano delicati fiori di santità, vocazioni come quella di Fortunato, la cui fede è trasmessa dalla famiglia, maturata nell’associazionismo cattolico e testimoniata nella società. Adesso nelle nostre mani è la responsabilità di fare in modo che l’esempio di Fortunato non venga dimenticato ed anzi sia trasmesso alle generazioni future. Ci vuole preghiera, tanta preghiera. Ma è necessario pure uno sforzo di memoria e di studio. Per ricordare che non c’è testimonianza di santità più alta di chi riesce a rendere il dolore una sorgente che zampilla d’amore. Un messaggio che vale per tutti, credenti e non credenti. Grazie, Fortunato!
Il Quotidiano del Sud, 3 maggio 2020