La “varia” monterossina di Salvatore

di Luigi Mariano Guzzo

              Al tempo del Coronavirus la Pasqua si caratterizza per un “digiuno” del tutto particolare: quello dei riti della devozione popolare. E sappiamo come la religiosità del popolo sia autentica fede. I riti – ricorda Papa Francesco – sono “luogo teologico” e rappresentano il “sistema immunitario della Chiesa”. Eppure, molte volte, diciamolo sinceramente, li abbiamo dati quasi per scontato, fino a considerarli, in alcuni casi, come appartenenti ad un mondo “altro”, lontano dal nostro, ormai passato. Quando oggi, invece, non possiamo che pensare a tali tradizioni con un senso di (neanche troppo velata) nostalgia.

            Salvatore Mazzara, 11 anni, di Monterosso Calabro (Vibo Valentia), tramite WhatsApp mi invia la foto di una “varia” da lui realizzata, con senso artistico. La “varia” monterossina è un carro votivo sul quale sono collocati la culla con il Cristo morto ai piedi della Croce, la Madonna Addolorata, San Giovanni Apostolo e diversi angeli, ed è portato a spalla, in processione, la sera del Venerdì Santo. È un appuntamento importante, per Salvatore, quello del Venerdì Santo. Sin dalla più tenera età, lo vive insieme al nonno Carmelo, tra i “portantini” storici di questo particolare rito. Ora che nonno Carmelo non è più tra noi, quell’appuntamento per Salvatore acquisisce maggiore rilevanza. Si sa, d’altronde: i bei ricordi modellano gli affetti, li rendono vivi, e dinamici, aiutano a sanare le ferite delle separazioni. Ma non si dà per vinto Salvatore. Siccome la processione è sospesa, costruisce da solo la sua “varia”, con arnesi e materiali d’uso comune per bambini: colla, forbici, colori pastello, cartoncini, una cassetta di plastica per la frutta… Il Venerdì di Passione viene così celebrato lungo il corridoio di casa, con fantasia e creatività. Una “varia” domestica, possiamo dire.

            Non è questo il racconto di un gioco, di un modo alternativo per esprimere emozioni e stati d’animo. O meglio, è anche un “gioco”. Ma quando la processione del Venerdì Santo diventa “gioco” per i nostri bambini, abituati come sono al digitale – tra computer, tablet, smartphone, … – significa che i riti della tradizione popolare non sono roba da “antiquariato”. Anzi, rivestono ancora un significato per il mondo contemporaneo. La religiosità del popolo è più che mai viva e, con il bagaglio sapienziale che porta con sé, non sveste la funzione catechetica e, in generale, pedagogica. Pensiamo soltanto a quanto le processioni della Settimana Santa abbiano da insegnare ai bambini sui temi del dolore, della sofferenza, della morte, come passaggi di conversioni, di rinascita, di resurrezione; questioni che, invece, noi più grandi cerchiamo di esorcizzare e, molto spesso, di eliminare dai nostri discorsi con i più piccoli. In questa vicenda c’è, poi, un altro aspetto da tenere in mente: la fede cristiana è l’eredità di una “bella notizia” che si tramanda e si custodisce di generazione in generazione, dai nonni ai nipoti, soprattutto con l’esemplarità della vita. Non a caso Papa Paolo IV parlava della necessità di avere più testimoni che maestri. E nonno Carmelo è certamente tra questi testimoni.

            Teologi e canonisti, giornalisti e intellettuali, vescovi, preti e fedeli, in queste settimane hanno scritto e detto molto (e ancora adesso lo stanno facendo) – e anche io l’ho fatto, su queste colonne – sulla dimensione domestica dell’essere chiesa. Poi arriva Salvatore e condivide la sua “varia”, di cui è orgoglioso. Nella foto c’è tutto il senso di che cosa voglia dire “chiesa domestica” e di come si possa celebrare la fede restando casa. Lo dimostra un bambino. E non è una novità. E’ già scritto nel Vangelo: “se non diventate come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18, 3), dice Gesù.

Il Quotidiano del Sud, 18 aprile 2020

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