Un’Ave Maria in un’ora di Glottologia? Ma la pace è ben altra cosa …

di Luigi Mariano Guzzo

Le parole del Rabbì di Nazareth sono chiare: a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare. Con il senno di poi, avrebbe anche potuto dire: a Dio quel che è di Dio e pure quel che è di Cesare. Così da legittimare  i suoi  discepoli ad intromettere gli affari religiosi nella sfera temporale. Ma non l’ha fatto. Ha preferito ricordare che Dio e Cesare devono essere tenuti ben distinti. Con buona pace, di tutti.

E, a proposito di “pace”, non si placano le discussioni sul comportamento della professoressa di Macerata che ha sospeso per qualche minuto la lezione di Glottologia per recitare un’Ave Maria con gli studenti. Un’Ave Maria – a detta sua – per la pace. Molto probabilmente non tutti gli studenti erano d’accordo con il gesto della docente, tanto che la notizia ha fatto il giro della Penisola.

Si è detto che tutto questo “polverone mediatico” sarebbe la prova della “forza” della preghiera, «pietra di scandalo e sasso di inciampo» in un mondo ormai senza-Dio.

Un po’ riduttivo, a dire il vero. Non è, forse, ben più ampia la capacità della preghiera di generare nuova “vita”, e anche nuova vita sociale? Non sta, forse, il suo essere «pietra di scandalo e sasso di inciampo» in una forza realmente generativa che produce bellezza, pure laddove vi è infedeltà e ingiustizia, e che – soprattutto – chiama in causa la responsabilità dell’uomo? E che c’entra, tutto questo, con la recita di un’Ave Maria in un’aula di un’università pubblica, in un’ora di Glottologia? Ben poco, ci sembra.

Si è detto pure: è testimonianza cristiana in una società priva di Dio. Quando, invece, pure qui, quel Dio fatto uomo che ora si invoca non lascia spazio a fraintendimenti: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt, 7, 21). Sì, potremmo anche dire – il giorno del Giudizio – di aver «profetato … cacciato demoni … e compiuto miracoli» nel Suo nome, ma non sarà sufficiente, perché non è questo mettere in opera la volontà del Padre (cfr. ibid.).

Ma cosa vuol dire, allora, testimonianza cristiana? Ancora una volta le parole del Rabbì non sono difficili da interpretare. I giusti destinati alla vita eterna saranno quelli che hanno dato da mangiare a chi aveva fame, da bere a chi aveva sete, che hanno offerto ospitalità a chi era forestiero, che hanno vestito chi era nudo, che hanno visitato chi era malato, che sono andati trovare chi era in carcere (Cfr. Mt. 25, 31-54). Perché, «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». E’ questo il significato autentico della testimonianza cristiana. Non un’Ave Maria o l’invocazione “Signore, Signore” … che non modella le nostre vite, sulla via della giustizia e della fraternità solidale.

Il che significa, anche, rispetto e comprensione. Perché la fede cristiana è – per fortuna – una proposta di libertà. Punto. Ciò comporta saper distinguere l’ordine di Dio dall’ordine di Cesare, senza fare confusione, senza imporre a tutti i costi. Perché che cosa potevano fare gli studenti nell’aula se non assistere al gesto della professoressa?

Una preghiera per la pace – è stato, infine, detto -, come è avvenuto in Polonia. Ma sia chiaro, quella catena umana di “rosario” in Polonia, pochi giorni addietro, invocava la protezione (divina?) dei confini territoriali. Quando, invece, il Vangelo ci chiede – lo abbiamo visto – di accogliere chi è forestiero. E, quindi, di aprire frontiere, di spalancare porte, di abbattere muri.

Forse che la pace è tutta un’altra cosa rispetto ad un’Ave Maria in un’ora di Glottologia …

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