di Luigi Mariano Guzzo
Inizia la scuola. Oggi la campanella suona per tutti. E non solo per chi è pronto ad occupare gli spazi fisici della classe: gli studenti, i professori, i dirigenti e tutto il personale, a vario titolo, impegnato nei nostri istituti. La campanella suona per quell’intera società civile che dalla scuola attende il suo potenziale per rigenerarsi e proiettarsi nel futuro. Perché ogni nuovo anno scolastico che comincia è una chiamata alla speranza e alla responsabilità. Al di là dei voti, al di là dei numeri, al di là delle interrogazioni, è su quei banchi che si costruisce e si plasma la forma essenziale del volto che assumerà la nostra classe sociale, del ruolo che saprà giocare nelle dinamiche interne e nelle relazioni internazionali. Dipenderà da quei banchi, oggi di nuovo occupati, la nostra capacità di sopravvivere come società alla condizione finita e peritura dell’individualità umana. Di riuscire, come società, a rimanere e ad occupare un posto in questo mondo, con il suo sedimentato bagaglio culturale, identitario, storico e artistico.
Che sia questa, e solo questa, per i nostri ragazzi, la ragione di guardare allo studio come impegno civile e come carità intellettuale. Che si sentano già loro addosso responsabilità della casa comune in cui sono chiamata a vivere da protagonisti. Rifuggendo, quindi, dai modelli che in questo tempo esaltano il valore della mediocrità, del presappochismo e della superficialità.
Che sia questa, e solo questa, per i loro educatori, la ragione di una presa di coscienza sulla importanza, sulla serietà, sul decoro di occupare la “cattedra”. Che percepiscano, insomma, la consapevolezza che la formazione e l’insegnamento sono arti che pretendono ricerca continua e capacità di stimolare, di porre quesiti, di lasciare qualcosa di sé agli altri.
E che sia ancora questa, e – ripeto – solo questa, per tutti noi, la ragione di guardare alla scuola come valvola di inclusione e di integrazione sociale, di pretendere dai nostri amministratori lo stanziamento di risorse pubbliche per lo studio e per la ricerca.
La scuola di oggi – sottolineo di oggi, non di domani – deve essere una scuola che offra ai ragazzi gli strumenti per non omologarsi alle subdole forme di pensiero collettivo. Di non essere, insomma, un altro “mattone” nel “muro”, come nel 1979 cantavano i Pink Floyd in “Another Brick in the wall”. “… Non abbiamo bisogno/ di controllo del pensiero/ nessun cupo sarcasmo in classe/ … non abbiamo bisogno di essere sorvegliati/ né di oscuro sarcasmo in classe”. Si cantava, quasi quarant’anni fa, contro un sistema educativo, rigido e nozionistico, che tendeva ad educare i ragazzi alla stregua di una catena di montaggio, tanto da renderli, alla fine del processo, carne da macello. Era il sogno di un ragazzino, la ribellione ad un metodo educativo che tendeva ad annullare la personalità dell’individuo. Gli studenti diventavano “merce”, pedine da muovere sugli scacchi di un monolitico potere politico, il cui valore fondamentale era l’uniformità.
Ma la libertà dei sistemi democratici ed il capitalismo 2.0 non dà oggi maggiori garanzie contro il pericolo della “reificazione” dell’uomo. Quella stessa uniformità si gioca ora sul terreno degli indici di mercato, dove l’economia innesta i bisogni agli individui e gli studenti sono adesso “punti” per l’assegnazione di cattedre e “voti” per l’assegnazione di borse di studio, ma comunque sempre e solo numeri. L’unico antidoto (e, quindi, l’unica speranza) è rappresentata da una scuola in cui le singole individualità sappiano valorizzarsi in sé e comporsi insieme. A partire da questo primo giorno di scuola.
L’editoriale è stato pubblicato nell’edizione de Il Quotidiano del Sud del 14 settembre 2017.