di Luigi Mariano Guzzo
E’ finita là, dentro al pozzo, la vita di Noemi. E con lei tutti i sogni che solo una ragazza di sedici anni può avere. Una vita e tanti sogni stroncati proprio da chi sulla sua pagina personale Facebook, poche settimana fa, le aveva scritto: “ti amo”.
Inabissale – possiamo supporre – la distanza che separava quelle cinque lettere digitate sulla tastiera del computer dai sentimenti che animavano il cuore, quello di carne, del giovane. D’altronde, si sa che la virtualità dei sentimenti è ben altra cosa dalla loro realtà; da un abbraccio, da due mani che si incontrano, da un bacio.
Forse Noemi ancora non lo sapeva. O, sempre forse, lo sapeva già, ma, semplicemente, non voleva crederci fino in fondo. Voleva essere lei, con la sua vanitosa bellezza, a dimostrare, a chi da quel ragazzo la metteva in guardia, che l’amore può tutto. E soprattutto può cambiare. Ma, probabilmente, non sapeva che sì l’amore può tutto, e può anche cambiare, ma solo a condizione che sia l’altra persona disposta a farsi toccare da quell’amore. Altrimenti può fare male, può picchiare, può essere violento. E se così – come scriveva lei stessa in un suo ultimo post – non è amore.
Lui, diciassettenne, un ragazzo che credeva di essere cresciuto. Che si atteggiava con la violenza di quegli uomini-padroni, di quelli che ritengono che sia l’uomo, quello “virile”, a dominare con la forza, quella bruta. D’altronde che poteva interessare a lui di rispettare le regole; a lui che aveva ormai imparato, con il comportamento da “bullo”, a fare a meno delle regole, tanto da poter utilizzare, sprovvisto ancora di patente, indisturbato e “abitualmente” – come raccontano le cronache – la macchina della madre, senza l’intervento di chi in quella comunità doveva garantire l’ordine pubblico. E’ questo modello sociale ad aver stroncato anche i suoi di sogni, ad aver macchiato la sua mano di un crimine orrendo, di cui è pienamente responsabile. Una mano che si è macchiata, quindi, anche per l’indifferenza di una società civile che, considerati i modi violenti, lo ghettizzava più che aiutarlo, e per la complicità di un genitore che l’ha coperto fino all’ultimo, ed ha scambiato l’amore ed il senso paterno di protezione con l’essere “correo” di un delitto.
E lì, in quelle fitte maglie della giustizia penale, in cui ora si invoca il diritto, ben presto ci si accorge che non c’è legge che tenga per ristabilire situazioni e rapporti sociali ormai definitivamente erosi. Al di là delle indagini degli inquirenti per determinare le ragioni dell’insano gesto, al di là della condanna di un giudice, l’unico rimedio, ora, è quello di non cedere il passo alla violenza, più di quanto, già, non sia stata protagonista di questa storia. Perché in queste ore Facebook si sta riempiendo di commenti incitano alla violenza, all’odio, alla vendetta personale, sotto quelle foto che – fino a pochi giorni fa – raccontavano di un amore finto, ma mascherato dall’indifferenza della società. Quando, invece, il solo comportamento sensato sarebbe il silenzio e il rispetto. Tra la tanta violenza che già c’è in questa storia.