di Luigi Mariano Guzzo
«Essere mafiosi e, nello stesso tempo, cristiani non è possibile. Le due scelte si fronteggiano decisamente, non soltanto nelle coscienze, ma nell’intero campo in cui il Padre ha ben seminato, pur senza impedire al nemico di seminare a sua volta. Incompatibili, come il fiore e il serpente, l’uccellino e il corvo, il grano e la zizzania». Così scrive l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra, nonché postulatore della causa di canonizzazione di don Pino Puglisi, nel suo libro “L’enigma della zizzania” (Rubbettino, 2016). Queste parole risuonano oggi più che mai forti, dinnanzi al triste episodio che ha caratterizzato Rosarno, dove alcune immagini sacre raffiguranti la Madonna di Polsi sono state affisse sulla saracinesca di un’attività commerciale chiusa, che guarda proprio all’abitazione della novantenne matriarca della famiglia Pesce, Giuseppina Bonarrigo. Molto probabilmente, un omaggio all’anziana donna e alla sua famiglia, per quella subcultura mafiosa che, negli anni, ha trovato nei simboli, nelle immagini e nelle espressioni esteriori della religione cristiana, un modo per legittimare, mantenere e rafforzare il controllo del territorio. Tant’è che già nel 1916 i vescovi calabresi parlavano della necessità di purificare i riti e i sentimenti della pietà popolare dalle incrostazioni di una subcultura mafiosa: “come infatti chiamare ancora religiose o almeno serie – scrivevano allora – certe processioni che si protraggono per intiere mezze giornate, se non anche di più, e nelle quali, come se il santo fosse un burattino, lo si fa girare per tutti i vicoli e i viottoli del pese, facendolo sostare, qui davanti la casa del procuratore A o dell’offerente B; più in là sopra un tavolino dinnanzi a una casa o a una bettola, nelle quali i portatori della statua entrano per rifocillarsi, se non anche per ubriacarsi? Ma un tale procedere, oltreché profano e ridicolo, è contrario affatto allo spirito della Chiesa, la quale non intende che le statue nelle processioni si fermino a richiesta dei privati, ma seguano recto tramite il loro itinerario, breve quanto possibile e determinato”.
A rileggere questo passaggio sembra quasi che nella società calabrese, in più di un secolo, non sia cambiato molto. Infatti, l’episodio di Rosarno ci riporta alla consapevolezza che, purtroppo, c’è ancora una Calabria, molto probabilmente – vogliamo sperare – piccola e minoritaria, immersa nel tribalismo della commistione tra fede e violenza criminale, incurante della inconciliabilità assoluta tra i valori del Vangelo e i non-valori della organizzazione mafiosa. E tale è l’inconciliabilità che Papa Francesco, nel 2014, dalla Piana di Sibari, ha definito la mafia come “adorazione del male e disprezzo del bene comune”, arrivando persino – mai prima di allora un Pontefice si era spinto a tanto – a comminare la pena della scomunica a coloro che percorrono la strada del male.
D’altro canto, il lungo cammino di una graduale presa di coscienza del fenomeno mafioso, da parte del magistero pontificio e del magistero dei singoli vescovi, è ben ricostruito nell’interessante volume di Antonino Mantineo, ordinario di Diritto ecclesiastico presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro: “La condanna della mafia da parte del recente Magistero: profili penali canonistici e ricadute nella prassi ecclesiale della Chiese di Calabria e Sicilia” (Pellegrini, 2017). Infatti, come scrive Mantineo, l’insegnamento di Bergoglio ripropone l’esigenza che “l’atteggiamento di misericordia che deve guidare tutta la Chiesa, se vuole tendere a rendere il suo volto simile a quello di Dio-Padre, come annunciato da Gesù, sia accompagnato da una distanza netta da ogni compromesso con quei sistemi e quegli stili di vita che siano fondati sulla violenza, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento dell’uomo, e dall’inequità”.
Ma nell’ultimo caso di Rosarno, è davvero triste vedere la mitezza di Maria di Nazareth, che nel suo grembo ha portato la speranza, strumentalizzata a modello di chi, al contrario, la speranza l’ha fatta abortire dalle nostre terre. Chi aderisce ad un’organizzazione criminale niente ha a che vedere con quel “sì” di Maria che ha rappresentato una scelta radicale di pace, di amore e di fratellanza. Eppure, oggi, è proprio da Lei che dobbiamo ripartire. E’ Maria, insomma, icona disarmata e disarmante, che offre alle nostre terre una Parola di liberazione dalla schiavitù strutturale, dal peccato, di chi alimenta prassi di crimine, di odio e di subalternità sociale.
L’editoriale è stato pubblicato su Il Quotidiano del Sud nell’edizione del 7 settembre 2017.