di Luigi Mariano Guzzo
Sembra che le nuove “cattedrali” in cui lavoratore e lavoro si fanno “merce” per saziare gli appetiti (insaziabili) della società capitalistica siano i call-center. Cattedrali in cui lo sfruttamento del lavoratore si realizza, proprio, nell’alienazione dalla sua attività, dove non c’è spazio per qualsivoglia soddisfazione personale. E’ un quadro dalle tinte fosche quello che Claudia Arletti offre sul numero di due settimane addietro de il venerdì di Repubblica, nell’inchiesta dal titolo: “Rende, capitale dei call center”.
Ne seguiamo, per qualche riga, il racconto: “Nell’area cosiddetta industriale dove l’ultima industria ha chiuso anni fa, lontano dal centro e dal mondo, una fila di capannoni quasi identici accoglie ogni giorni suoi lavoratori con cuffia e pc. Niente panchine, non un bar; le strade biancheggiano al sole, silenziose come in certi film apocalittici, come se fosse caduta la bomba N che fa fuori le persone ma lascia intatte le cose. Nei cortili dei capannoni la pausa è una sigaretta in piedi, all’ombra risicata dai muri …”.
I numeri parlano chiaro: su 11mila persone impiegate nei call center in Calabria, ben 3.250 sono solo a Rende, di cui 1750 assunti con un contratto a tempo indeterminato. In media, le paghe si aggirano tra i 600 e gli 800 euro mensili, ma – si legge nell’inchiesta – ci sono pure compensi da 400 euro, senza ferie, malattie e liquidazione. Quella dei lavoratori in nero, poi, è tutta un’altra storia …
Insomma, per uno strano cortocircuito, la città che ospita l’Unical, tra i centri universitari d’eccellenza italiani, nonché il più grande campus del Paese, è anche la città con il “bizzarro” record di essere la “capitale” dei call center. Il centro urbano che raccoglie le aspirazioni e le potenzialità dei nostri giovani e del territorio ospita, al contempo, quegli spazi “grigi” che rappresentano la moderna alienazione dell’uomo nel lavoro. E’ come se la miopia di chi gestisce la cosa pubblica, l’interesse della collettività, garantendosi il soddisfacimento di interessi privati, abbia finito per mortificare il ruolo dell’università, quale valvola di sviluppo e di integrazione di saperi nel territorio, emarginandola, invece, a “serbatoio” di un settore professionale che non ha altro interesse al di là della massimizzazione del profitto
Eppure, nella perversa e assurda logica del mercato, probabilmente non è un caso che queste migliaia di cervelli, laureandi e laureati, trovino, proprio dietro l’angolo di quella stessa aula universitaria, in cui hanno coltivato e coltivano, sogni e speranze, ambizioni e aspirazioni, un paio di cuffie da indossare per neanche mille euro al mese. Ma non c’è futuro, ne siamo convinti di questo, per una terra la cui classe dirigente, tra politica e imprenditoria, incentiva strutture di sfruttamento professionale e commerciale, piuttosto che promuovere strategie complessive di valorizzazione dei suoi giovani più meritevoli. Di quei giovani che hanno studiato con tutta la voglia e l’amore di restare in Calabria.
Che cosa rimanga, là, nella collina di Arcavacata, di quell’art. 36 della Costituzione (ancora in vigore, sia chiaro!), che garantisce al lavoratore il “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, non è facile dirlo. Di certo, i giovani calabresi avrebbero meritato e meritano molto di più dei pochi spiccioli di un sistema che crea bisogno e dipendenza.