di Luigi Mariano Guzzo
In marcia per la pace. Da sessant’anni. E – questa volta – sotto il motto di “I care”. Le stesse parole che don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, prete e maestro impoverito tra i poveri nella valle del Mugello, scrive sulla porta della sua scuola che rompe gli schemi classisti dei percorsi formativi dell’Italia del dopoguerra. Sono parole che in italiano suonano come “mi sta cuore”: tutto il contrario, esattamente agli antipodi, del “me ne frego” fascista. D’altronde la pace non ha nulla a che vedere con le devianze di poteri che si impongono tramite la violenza, la forza brutta, sottomettendo la dignità della persona umana alla paura e al dolore.
Compie sessant’anni la marcia per la pace Perugia-Assisi (la prima si è svolta il 24 settembre 1961 per intuizione di Aldo Capitini, la prossima si svolgerà il 10 ottobre). E, come si usa in certe occasioni, viene spontaneo affermare: “…non si direbbe”. Ma, in questo caso, è necessario aggiungere una pausa, una virgola, e proseguire la frase con un avverbio: “purtroppo”. È un avverbio, questo, che pesa come un macigno sulle nostre coscienze. Che ci inchioda alle nostre responsabilità, di individui e di comunità, dinnanzi alla storia. È vero che il mondo che abitiamo oggi è profondamente diverso, profondamente cambiato, profondamente innovato, rispetto al mondo di oltre mezzo secolo addietro. Eppure, ad essere rimasta invariata è la persistenza di lotte fratricide, di conflitti, di guerre. Mutano gli scenari geo-politici, le varianti economiche, gli indirizzi sociali, le basi culturali e le situazioni storiche ma perdurano dinamiche umane e sociali di opposizione e di scontro.
Ieri c’era la guerra fredda, oggi c’è l’Afghanistan (su quest’ultima situazione la marcia di quest’anno rivolge un’attenzione particolare). E non solo: ai nostri giorni si devono registrare decine, probabilmente centinaia (il calcolo non è mai preciso!) di conflitti armati in giro per il mondo. Si capisce come mai Papa Francesco abbia più volte parlato di una “terza guerra mondiale a pezzi”. Stando così le cose, non c’è da stupirsi che l’industria bellica, per la produzione e lo sviluppo di armi, non conosce crisi alcuna. Anzi, tutt’altro. Il sacerdote Fabio Corazzina, nel pieno dell’emergenza della sindrome Covid-19, a marzo 2020, durante il primo drammatico lockdown, denunciava che in Lombardia si era in grado di fabbricare pistole, bombe, mitragliatrici, radar militari, munizioni, caccia-bombe, F-35, ma non mascherine e presidi sanitari per salvare le vite. Erano i mesi – ahinoi, come dimenticarli! – in cui non era per niente semplice reperire mascherine e respiratori sui mercati internazionali, e mentre le imprese in Italia, in Europa e nel mondo sospendevano le attività produttive a causa del Coronavirus, i governi lasciavano operative le industrie della guerra: la produzione di munizioni e di caschi per i piloti di aerei da guerra era (ed è) ritenuta un’attività essenziale. Ipocrisia in piena regola di un Occidente che si ostina a chiamare “missioni di pace” quelle che sono vere e proprie guerre, durante le quali perdono la vita migliaia di persone umane, civili e militari, donne e uomini, bambini e anziani (quando dovrebbe essere fin troppo evidente – autoevidente, del tutto- che la pace non può essere perseguita da militari, in divisa, ben stipendiati per il loro lavoro, con addosso mitragliatrici, che camminano in carrarmati blindati).
La domanda sorge spontanea: esiste, può esistere, la pace? La tensione schmittiana di “amico” e “nemico” sembra connaturare irrimediabilmente la dimensione politica, di ogni ambito del politico, in ciascuna epoca storica, fino all’etica: ciò è giusto e ciò che non è giusto è deciso (l’utilizzo del verbo decidere è voluto!) da chi è più forte, da chi vince lo scontro. “Homo homini lupus”: ogni uomo è lupo per l’altro uomo! Il punto (nevralgico e, al tempo stesso, pericoloso) è che questa idea da contingente – riferita, quindi, a situazioni, ad esperienze, a periodi storici ben determinati – è ormai resa, da tempo, come universalizzabile. In altre parole: in questa visione, il mondo vive, tutti noi viviamo, in un perdurante stato di guerra. E da qui non ci sarebbe alcuna via d’uscita: esiste soltanto la guerra, mentre la pace può essere considerata, al massimo, una effimera parentesi, nulla di più. Persino la politica, per Michel Foucault è guerra. O meglio, è guerra continuata con altri mezzi, laddove nelle parentesi apparenti di pace la violenza (tipica della guerra) è camuffata dal diritto, che è un prodotto del potere. Il rovesciamento con quanto affermava il generale prussiano Carl von Clausewitz – e cioè, che la guerra “non è se non la continuazione del lavoro politico” – è evidente nel Novecento, in quel Secolo “breve” che – a nostra sorpresa – è diventato il Secolo “lungo”: pensavamo che fosse terminato con il crollo dell’Unione Sovietica e, invece, si è effettivamente concluso con l’esplosione del Coronavirus, come sostiene il filosofo del diritto Massimo La Torre nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista “Ordines” (www.ordines.it).
Se la pace non esiste, non c’è bisogno di una marcia. Ma è un grave errore pensare questo. Il principio fondamentale da ribadire nei nostri cammini non-violenti è che la pace, come situazione di assenza di guerre, esiste. Eccome, se esiste! È una condizione, uno stato esistenziale e sociale, da perseguire non soltanto sul piano ideale, ma, ancor di più, sul piano reale, pratico, concreto. A tale scopo, è necessario l’impegno di ciascuno di noi: dobbiamo essere in grado innanzitutto di costruire nel nostro quotidiano, nel nostro piccolo, relazioni interindividuali e sociali pacifiche, nello spirito di una fratellanza e di una sorellanza universali. Tant’è che nell’edizione di quest’anno la marcia per la pace è diventata la “marcia della pace e della fraternità”.
Ed ecco perché accanto all’affermazione sui sessant’anni della marcia per la pace, poco più sopra, è stato aggiunto l’avverbio “purtroppo”. È il sogno di un mondo che sarà finalmente liberato e libero dalle guerre, dalle ingiustizie, dai soprusi, dalla legge del più forte. Un mondo in cui non ci sarà bisogno di camminare in decine, in centinaia o in migliaia per reclamare il diritto fondamentale della persona umana, di ogni persona umana, alla pace. Un mondo in cui saranno pienamente realizzate le parole del profeta Isaia (2,4): “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra”. E allora sì che di marce per la pace non ci sarà più bisogno. Ma… adesso spiace interrompere il sogno. Svegliamoci e, per intanto, continuiamo a camminare.
*L’articolo è stato pubblicato su Mimì, supplemento culturale de “Il Quotidiano del Sud – L’Altra Voce d’Italia”, 26 settembre 2021, p. VI
