di Luigi Mariano Guzzo
C’è silenzio, in questi giorni. Tutt’intorno a noi. Non dentro le nostre case, probabilmente. Ma tra le strade e le vie delle città, certo. Se la quarantena fosse una vera e propria quaresima, domani sarebbe finito tutto. Saremmo usciti fuori per le strade ad urlare di gioia, perché la nostra speranza diventa certezza: la vita vince. E vince sempre, anche sulla morte. Non è così però. Non lo è oggi, non lo sarà domani e, forse, non lo sarà neanche fra una settimana…
Eppure, stiamo celebrando la Pasqua. Domenica scorsa non abbiamo alzato le palme al cielo come la folla che osannava il Figlio di Davide, ma la liturgia ci ha consegnato comunque l’ingresso trionfante di Gesù a Gerusalemme. Il Giovedì Santo non abbiamo partecipato al segno della lavanda dei piedi, ma nella fede abbiamo fatto memoria di quell’ultima cena in cui il pane viene spezzato come offerta di condivisione e di servizio. Il Venerdì Santo non abbiamo portato la culla con il Cristo morto per le vie del centro storico, ma abbiamo sperimentato il dolore della passione. Una passione vissuta in maniera profonda. Già: questo Venerdì l’abbiamo sentito particolarmente “nostro”. Immersi come siamo in una lunga passione, che coinvolge l’umanità intera. Tant’è che la sospensione delle messe, ieri finalmente non ci è apparsa una rinuncia, ma una diretta conseguenza: come poter celebrare la vita nelle ore del dolore, della sofferenza, della morte? (d’altronde, è nella tradizione della Chiesa non celebrare l’eucarestia il Venerdì Santo).
Ed ecco che arriva il sabato: giorno del silenzio, dell’attesa trepidante. Del sepolcro scoperchiato e dell’annuncio di salvezza dato dalle donne. La liturgia cristiana, nella veglia della notte, offre un’immagine molto suggestiva: il fuoco del cero irrompe nel buio delle chiese, e le irradia della sua luce. Neanche questo segno ci sarà dato vivere questa notte. Al più lo vedremo riprodotto nelle celebrazioni trasmesse online, tra le luci (artificiali) dei salotti.
Quant’è faticoso celebrare questa Pasqua. Quant’è difficile vivere una domenica di Pasqua, come evento liturgico, che si inserisce in un venerdì di passione nella storia dell’uomo. Ora sì che capiamo perché per secoli il nostro popolo, sottomesso e sfruttato, si sia sentito più vicino a Gesù crocifisso che non a Gesù risorto (è un dato di fatto: la devozione popolare si concentra più sul Venerdì Santo che non sulla Domenica di Pasqua). Come contraltare, però, una mentalità di fatalismo e di rassegnazione non ha permesso di vedere all’orizzonte la liberazione, la domenica di Pasqua. Un prezzo davvero caro, che corriamo il rischio di pagare anche noi se rimaniamo dentro il “nostro” venerdì. Sia chiaro: il venerdì c’è e lo dobbiamo attraversare (purtroppo) fino in fondo, per entrare nel sabato che porta alla domenica. Ma la prospettiva può essere cambiata: se guardiamo alla liturgia come tempo di Dio sovraordinato al tempo dell’uomo, lo scartò tra fede e storia sarà evidente. E’ semplicemente ed umanamente impossibile pensare di vivere la Pasqua in un venerdì di Passione. Ciò stride con la nostra coscienza, con i nostri sentimenti, con le nostre emozioni. Non ci rimane allora che fare in modo che il tempo dell’uomo sia dalla liturgia trasfigurato in quello che già essenzialmente è: tempo di Dio. Non ci resta, in altre parole, che illuminare il Venerdì Santo della luce della Pasqua. Non sarà ancora domani, per tutti noi, il giorno della gioia e della rinascita. Ma potrà essere l’occasione, domani, per sperare in un giorno di gioia e di rinascita. E per credere che tanto più presto verrà, questo giorno, quanto più noi saremo in grado di adottare comportamenti responsabili, che tutelino noi e gli altri. Ciò significa vivere la domenica di Pasqua. Ma, attenzione al calendario, oggi è ancora sabato…
Il Quotidiano del Sud, 11 aprile 2020