di Luigi Mariano Guzzo
Scompare Giovanni Franzoni. Ma non va via con lui l’anelito di riforma per una società più giusta e per una chiesa più evangelica. Perché l’ex Abate di San Paolo a Roma, l’«abate rosso» come lo definivano gli ambienti del tradizionalismo cattolico, lascia in questo mondo la ricca eredità spirituale di una comune appartenenza ecclesiale: il sentirsi profondamente Chiesa nel rispetto e nella valorizzazione del primato della libertà di coscienza individuale. Come scrive Luigi Sandri sull’ultimo numero di Confronti, Franzoni «affrontò consapevolmente la sfida – ardua, affascinante e dolorosa – di cercare di vivere l’evangelo in una società complessa, “liquida” e difficile come la nostra, e in una Chiesa, in alcune sue parti istituzionali e non, del “consenso” e del “dissenso”, talora lenta ad accogliere le beatitudini proclamate da Gesù, ben sapendo che il Suo regno non è di questo mondo».
A morire è uno degli ultimi Padri conciliari viventi. Giovanni, infatti, eletto abate nel 1964, partecipa alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II: ne entra “conservatore” – come dirà egli stesso – e ne esce “progressista”. Eppure – ricorda ancora Sandri – il 12 ottobre 2012, quando Benedetto XVI invita in udienza e, poi, a pranzo i Padri conciliari viventi, a Giovanni l’invito non viene recapitato. Doveva essere percepito ancora troppo scomodo per quella Chiesa che l’aveva prima sospeso a divinis e, poi, ridotto allo stato laicale; “colpevole” di non aver “accettato di rimanervi, non dico supinamente, ma in rispettosa collaborazione con i legittimi Pastori”, come si legge nella lettera dell’allora cardinale vicario di Roma, Poletti, allegata al provvedimento di riduzione, nel 1976.
A ridosso del Vaticano II, la chiave ermeneutica dell’interpretazione storico-critica delle letture bibliche, lo porta a “spezzare” la Parola di Dio tra la gente, a far maturare nella comunità il contenuto che il messaggio evangelico destina all’uomo contemporaneo, all’uomo della strada, con le sue speranze, le sue gioie, ma anche le sue ansie e le sue preoccupazioni. Vi è lo spazio, quindi, per vivere il sacerdozio ordinato quale ministero da spendere in senso comunitario, quale ministero della comunità e non del singolo individuo, nelle scelte, nelle responsabilità, nella predicazione, nella condivisione eucaristica. A servizio dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati, degli ultimi.
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Personalmente ho avuto la gioia di incontrare Giovanni in due occasioni.
La prima, a Roma, in occasione della presentazione del suo libro “Autobiografia di un cattolico marginale” (Rubbettino, 2014), il 20 maggio 2014, presso la Sala Pietro da Cortona in Campidoglio. Mi presento al termine dell’incontro e mi soprende, immediatamente, la sua cordialità e disponibilità, ma soprattutto il suo “chinarsi”, con l’ascolto, sulle vite e sulle esperienze degli altri, come solo gli uomini davvero “liberi” sono capaci di fare. Appresa la mia provenienza da Catanzaro, ha subito parole di stima e di affetto nei confronti dell’arcivescovo Antonio Cantisani, il quale – pastore da appena un anno nel capoluogo calabrese – aveva partecipato al Seminario delle Comunità di base, “Eucarestia; ricerca e prassi nelle Comunità di base” svoltosi nel capoluogo di regione tra il 6 e il 7 dicembre 1981. E non era stata, la sua, una presenza simbolica, in quanto il vescovo si era spinto fino ad incoraggiare l’impegno delle Comunità di base nel loro modo comunitario di vivere il Vangelo del Rabbì di Nazareth.
Incontro nuovamente Giovanni, dopo qualche mese, sempre a Roma, al Convegno delle Comunità di base, dal 6 all’8 dicembre 2014. Ho ancora impresso nella mente l’immagine di lui che non appena sente la mia voce, nonostante la cecità e qualche problema di salute di non poco conto, mi riconosce, ricordandosi dell’incontro di qualche mese prima. E’ un segno evidente della sua attenzione alle persone, a tutte le persone; di una vita che era stata un mosaico di incontri.
In quei giorni Giovanni stava riflettendo su una questione che assume una posizione centrale nel suo itinerario teologico e pastorale: il senso della partecipazione alla mensa eucaristica, il significato del pane spezzato e del vino offerto sull’altare, in relazione all’inedita via che le comunità di base avevano sperimentato, ormai sul finire degli anni Settanta, per quanto riguarda la celebrazione dell’eucarestia. Possiamo anche fare una fagiolata – mi dice – e ritrovarci, in quel momento, nel nome del Signore, ma sarebbe questo un modo ecclesiale di vivere il nostro stare insieme alla mensa? Il senso di questa domanda è chiaro. La risposta pure: la partecipazione alla mensa eucaristica deve (sempre) inserirsi in un percorso comunitario di riconoscimento simbolico del messaggio.
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Sono due, insomma, le coordinate essenziali per comprendere il messaggio riformatore della proposta di Giovanni. Da un lato, l’idea che la riforma può avvenire solo se inserita in un progetto di riflessione comunitaria sull’uso dei simboli e degli strumenti propri della Chiesa-istituzione; dall’altro, inoltre, la convinzione che il piano teologico e il piano simbolico del discorso religioso sono complementari in ogni esperienza di fede. Solo gli strumenti dell’analisi teologica e dell’indagine storico-critica, da questo punto di vista, possono aiutare a raggiungere una maggiore consapevolezza del linguaggio simbolico, tanto sul pianto individuale quanto su quello comunitario.
Giovanni Franzoni rappresenta un grande testimone di speranza e di libertà evangelica per il nostro tempo. Certo, la sua vicenda deve inquadrarsi nel contesto di una Chiesa italiana, che dopo il Vaticano II e i fermenti del ’68, ha paura, nelle sue articolazioni istituzionali, di un mondo che sta repentinamente cambiando. Non era bastato, infatti, l’annuncio di gioia e di speranza che aveva animato i lavori del Concilio ecumenico. Giovanni, invece, dall’interno di un lungo e tortuoso percorso comunitario, riesce ad andare oltre queste stesse paura. Senza non avere, lui, paura, a sua volta. Ma con la serenità nel cuore di chi fa parlare la sua coscienza e scorge nel Vangelo la fonte di liberazione e di giustizia. Per la Chiesa e la società.