di Luigi Mariano Guzzo
E’ rito assai antico quello dell’ordinazione episcopale. La bellezza di un rito liturgico risiede nel suo significato, nel suo essere rappresentazione visibile di una realtà invisibile. L’ordinazione episcopale di don Mimmo Battaglia (Cattedrale di Catanzaro, 3 settembre) è occasione per ripercorrere le tappe della cerimonia, indagarne il significato e svelare il senso che sta dietro parole e gestualità di antichissima tradizione.
La liturgia, infatti, è preghiera viva che coinvolge tutto il Popolo di Dio. In essa “con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio” (Catechismo della Chiesa cattolica, 218). Il rito di ordinazione episcopale, in particolare, come ci ricorda Papa Paolo VI nella costituzione apostolica Pontificalis Romani, manifesta la profonda “convergenza” tra tradizione occidentale e tradizione orientale in quanto riprende, soprattutto nella preghiera di ordinazione, la Traditio Apostolica di Ippolito di Roma, fonte del III secolo conservata in gran parte nella liturgia copta.
La liturgia di ordinazione si inserisce, nella celebrazione eucaristica, al termine della proclamazione del Vangelo, e viene introdotta dall’invocazione dello Spirito Santo con l’inno Veni Creator Spiritus. Subito dopo si procede con la presentazione del candidato al vescovo consacrante e, se non sia lo stesso Romano Pontefice a conferire l’ordinazione episcopale, con la lettura della bolla di nomina e, quindi, del mandato pontificio. E’ essenziale questa fase, in quanto è diretta applicazione del can. 1013 del Codex di Diritto canonico: “A nessun Vescovo è lecito consacrare un altro Vescovo, se prima non consta del mandato pontificio” (il Vescovo, infatti, che provvede ad una ordinazione episcopale senza mandato pontificio incorre in scomunica ex can. 1382). La nomina di un vescovo è infatti esclusivamente rimessa alla libera volontà del Pontefice Romano (can. 377).
Dopo l’omelia seguono gli impegni del candidato a custodire integra la fede e ad esercitare il ministero episcopale, in comunione con il vescovo di Roma e tutti gli altri vescovi (si esprime in tal modo il principio della collegialità episcopale che richiama il Collegio apostolico dei Dodici). Con le Litanie dei santi il candidato si prostra a terra a voler significare il suo essere “nulla”, polvere, terra per l’appunto, l’umiltà della sua persona e il totale abbandono fiducioso alla volontà del Signore.
L’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione rappresentano, poi, il cuore del rito: è per antichissima tradizione che la trasmissione di un potere sia realizzata mediante imposizione delle mani. L’imposizione rappresenta la “materia” stessa dell’ordinazione episcopale, il momento in cui la grazia sacramentale plasma la realtà del nuovo vescovo che si inserisce, così, nella successione apostolica del vescovo consacrante, da “anello in anello” come afferma mons. Vincenzo Bertolone. Successivamente la preghiera di ordinazione viene pronunciata con l’imposizione del libro dei Vangeli sul capo dell’eletto: ciò significa che il vescovo, ogni vescovo, non è sopra, ma sotto il Vangelo al quale è vincolato nel suo ministero.
Si hanno poi i riti esplicativi che manifestano, quindi, nei segni esteriori la nuova realtà del vescovo ormai ordinato. L’unzione con l’olio del Crisma richiama l’unzione dei re d’Israele, che è l’unzione di chi è chiamato non soltanto ad essere a capo di un’organizzazione politica – ci ha ricordato Papa Francesco nella messa a Santa Marta del 27 gennaio 2014- ma ad essere guida per il Popolo assistito dallo Spirito Santo, partecipe quindi del sacerdozio regale di Cristo. E poi ancora la consegna del Vangelo (il dovere di annunciare la Parola di Dio), dell’anello (la sponsalità del vescovo con la sua Chiesa), della mitra (la corona di gloria, preludio di santità) e del pastorale (il governo della comunità ecclesiale). Le tre funzioni (o munus) ecclesiali che rappresentano la missione data da Cristo sacerdote, re e profeta alla sua Chiesa, e cioè di santificare, di governare e di insegnare, sono rappresentati in questi segni in maniera evidente.
Al termine del rito il vescovo ordinato scambia la pace con i suoi confratelli nell’episcopato (è ancora Ippolito di Roma che riporta che “a chi è stato fatto vescovo, tutti danno il bacio della pace e lo salutano…”) e, ormai parte del Collegio episcopale, prende il posto a lui assegnato nel presbiterio; da qui scenderà in mezzo all’assemblea dopo i riti di comunione per benedirla in segno di saluto e di lode all’Altissimo.